
Dopo un inizio positivo nel 2005, i rapporti diplomatici tra Ankara e Gerusalemme hanno iniziato a cambiare sin dal 2006 (guerra del Libano). Con l’Operazione Piombo Fuso (2008) e la decisione della Turchia di cancellare l’esercitazione aerea congiunta con Israele (denominata “Eagle”) nel febbraio 2010, Ankara aveva già messo praticamente un importante stop ai rapporti con lo Stato ebraico. D’altronde, il sacrificio dell’alleato strategico israeliano, non poteva non essere compiuto dalla Turchia se questa intende ricoprire un ruolo centrale nel Medioriente che si va formando dopo lo scoppio della cosiddetta “Primavera Araba”.
Con la repressione della rivolta in Siria, infatti, la prima visione della politica estera dei “zero nemici” seguita sinora dall’AKP è praticamente andata nel cassetto. Una sua rivisitazione era necessaria. Così, Ankara ha aggiunto alla lista di richieste fatte ad Israele, oltre alle scuse ufficiale e al risarcimento per i morti della Mavi Marmara, anche la fine del blocco navale a Gaza. Richieste che, chiaramente, il Governo turco sapeva essere irricevibili. Una fine già scritta, con una funzionalità ben precisa. E pensare che il Rapporto Palmer, che ora Ankara rifiuta, fu una precisa richiesta della Turchia alle Nazioni Unite, in rifiuto dell’inchiesta interna fatta da Israele stesso. Davvero paradossale.
Compresa la strategia turca, è necessario ora capire le sue implicazioni oltre al rapporto con Israele. La Turchia, infatti, non è la sola ad avere un preciso interesse nel Medioriente che verrà. Iran e Arabia Saudita, infatti, nutrono lo stesso sentimento. Teheran, in particolare, è molto attivo e ha usato tutte le occasioni per sfruttare l’instabilità della regione. Il programma nucleare militare iraniano procede e gli Ayatollah hanno messo un piede in Bahrein e due intere gambe nella repressione siriana. La vera attenzione di Turchia, Iran e Arabia Saudita, si concentra sull’Egitto. Presto ci saranno le elezioni a Il Cairo e i Fratelli Mussulmani sembrano i favoriti nella competizione.
Apparentemente esiste un’unità di intenti tra i tre Paesi islamici della regione mediorientale. I palestinesi continuano ad essere al centro della retorica turca, araba e persiana e Israele il bersaglio principale. La posta in gioco, però, è molto più alta e lo dimostra la decisione della Turchia di accettare sul suo territorio radars dello scudo di difesa antimissile della Nato. Uno scudo nato in una chiara visione anti-iraniana, in risposta al programma nucleare e balistico di Teheran. Per chi minimamente la segue, è noto che la stampa iraniana in questi giorni è piena di critiche alla decisione turca e di analisi negative sulla politica estera di Ankara, considerata troppo “occidentale”.
Insomma, ancora una volta, oltre “le gambe c’è di più”. Dietro la decisione di sacrificare il “solito capretto” (Israele), c’è una vera e propria competizione tra i tre poli della regione mediorientale: l’ex Impero Ottomano, l’ex Impero persiano e l’Hejaz, la culla della civiltà mussulmana…
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