
In primis l’accordo deve impensierire gli Stati Uniti: pare ormai chiaro, infatti, che l’Iran voglia approfittare al massimo del ritiro statunitense dall’Iraq. La vicinanza del Primo Ministro iracheno al-Maliki a Teheran e il fatto che l’ex feudo di Saddam Hossein sia composto in prevalenza da una popolazione sciita, lascia alla Repubblica islamica dell’iran un ampio margine di azione. La crisi del regime siriano, inoltre, rende Baghdad un nodo centrale per l’esportazione delle armi e dei finanziamenti iraniani verso le milizie libanesi di Hezbollah. Va, però, precisato che la comunità sciita presente in Iraq non sarà automaticamente una facile preda del regime sciita iraniano. La visione religiosa dei clerici iracheni, infatti, è molto diversa da quella dei clerici iraniani: in tal senso, basti solamente pensare alla figura del Grande Ayatollah al-Sistani, da sempre contrario alla lettura khomeinista della velayat-i-faqih (ovvero al ruolo “monarcale” del giureconsulto islamico nell’Iran di oggi). Proprio per questa ragione, l’Iran tenderà ancora soprattutto ad appoggiarsi al clerico estremista sciita Muqtada al-Sadr, rivale di al-Sistani e più vicino alle istanze alle posizioni politiche di Teheran.
La seconda lettura dell’accordo suddetto riguarda direttamente l’Iran e la Siria: con questo patto, infatti, il regime iraniano ha chiarito definitivamente la sua posizione in merito alla rivolta popolare in atto nella Repubblica siriana. Dopo essere stata colto a sorpresa dai moti di piazza di Hama, Homs, Dara’a e delle altre città siriane l’Iran, pur chiedendo ad Assad di attuare delle riforme, ha aumentato costantemente la difesa dell’attuale regime politico in Siria. Damasco, si ricordi, rappresenta per l’Iran un asse centrale della sua strategia politica e, sebbene a Teheran si stiano considerando le varie alternative, la caduta degli Assad è considerata una minaccia agli interessi nazionali della Repubblica degli Ayatollah. Per evitare questo, il regime iraniano è disposto a fare tutto: dopo aver inviato i suoi uomini ad aiutare materialmente i militari siriani nelle repressioni, l’Iran sembra ora voler anche ridare alla Siria una nuova stabilità economica.
Il terzo e ultimo punto di estremo interesse riguarda il rapporto tra Turchia e Iran in merito alla questione siriana. Ankara, infatti, ricevendo i profughi e schierando le truppe al confine con la Siria, ha chiaramente preso una posizione di dura condanna verso le azioni del regime degli Assad. Teheran, come suddetto, sostiene invece fortemente il regime siriano e vede con estrema diffidenza l’attuale politica estera della Turchia. Se, per un verso, l’Iran vuole mantenere con la Turchia un forte rapporto diplomatico, per un altro verso gli Ayatollah sono contrari alla nuova politica estera turca di stampo “ottomano” e vedono come una minaccia diretta la possibilità che la Turchia – paese sunnita – diventi il nuovo perno geopolitico del Medioriente. In tal senso, quindi, va letto l’articolo di Reza Garmabehry sul settimanale dei Pasdaran “Sobhe Sadegh”. In questo pezzo, Reza Garmabehry ha attaccato direttamente Ankara per la sua posizione di critica verso Damasco e ha chiarito che, se l’Iran fosse costretto a scegliere tra Siria e Turchia, opterebbe sicuramente per il primo paese. Un articolo molto duro che, però, è stato accompagnato dall’escalation militare delle Guardie Rivoluzionarie contro il partito curdo PJAK nella zona del Kurdistan iracheno. Un duro attacco con elicotteri e tank, volto a dimostrare il ruolo “stabilizzatore” che l’Iran svolge nella questione curda, molto rilevante per gli interessi strategici della Turchia.
Come rimarcato dall’analista iraniano Bahram Amirahmadian su Asia Times, l’attuale politica estrera dell’Iran sarebbe una combinazione di “soft power” e “hard power”, di carota e bastone, volta ad imporre la volontà degli Ayatollah nella regione. Appare difficile, però, pensare che la sunnita e atlantica Turchia accetti passivamente questo protagonismo iraniano.

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