
Hugo Chavez, Presidente bolivariano del Venezuela, ha incontrato il 19 settembre scorso il Rabbino Capo della Comunità ebraica locale Isaac Cohen. In questa occasione, Chavez ha ribadito l’importanza della cultura ebraica e ha promesso di intervenire direttamente contro gli episodi di antisemitismo in atto in Venezuela. Non va dimenticato, infatti, che nel gennaio del 2009 la Sinagoga di Caracas è stata distrutta a vandali e, poco tempo dopo, una bomba è stata ritrovata in un centro ebraico. Durante la visita si è parlato anche dei rapporti tra Venezuela e Israele, peggiorati costantemente sin dalla presa del potere di Chavez e poi definitivamente rotti dopo l’operazione di Tzahal a Gaza nel 2009. Il Ministro degli Esteri venezuelano Nicolas Maduro, rispondendo ad una domanda di un giornalista sulla questione, ha risposto che “tutti gli aspetti politici del rapporto con il Governo israeliano verranno esaminati”.
Questi due eventi hanno rappresentato un importante passo avanti nella lotta all’antisemitismo internazionale, soprattutto perché si è trattato di iniziative partite da leader molto vicini all’Iran di Ahmadinejad e spesso estremamente critici nei confronti di Gerusalemme.
Una domanda, però, sorge spontanea: perché questo cambiamento politico improvviso? Perché ciò avviene solamente in questo momento e non mesi addietro?
La prima risposta, la più ovvia, è che certamente “meglio tardi che mai”. Il fatto che due leaders sudamericani, antagonisti degli Stati Uniti, comincino a criticare un loro alleato per il suo negazionismo e per il suo antisemitismo, non può che essere visto positivamente. Una svolta che, teoricamente, avrebbe dovuto rappresentare da sempre un dovere per personaggi come Castro e Chavez che in pubblico sostengono valori come l’uguaglianza e la libertà di fede.
C’è, però, anche una seconda possibile risposta. Indubbiamente un pochino più “cattiva”. Le “nuove posizioni” di Castro e Chavez arrivano, forse non casualmente, in un momento di estrema difficoltà economica per Cuba e per il Venezuela. L’Avana, ormai governata da Raul Castro, proprio di recente è stata costretta a rivedere il suo modello politico e ad annunciare uno storico e drammatico taglio di 500 mila posti di lavoro nel pubblico settore. Anche Caracas non naviga certamente in buone acque: nonostante la ricchezza di idrocarburi, infatti, il deprezzamento del petrolio ha rovesciato radicalmente i piano economici del Governo Chavez. Molti obiettivi sociali sono, così, saltati e il Pil è sceso del 3,5% nel primo semestre dell’anno. In questi ore sono stati resi noti, inoltre, i risultati delle elezioni legislative. Elezioni che, secondo le previsioni, pur premiando Chavez, hanno visto l'opposizione guadagnare oltre 1/3 del Parlamento, quello che serve a poter bloccare l'apporvazione delle leggi proposte dal Presidente (serve, infatti, una maggioranza di 2/3).
Le parole di Castro e Chavez, quindi, potrebbero essere un messaggio indiretto agli Stati Uniti e ad alcuni gruppi di pressione presenti al suo interno: Cuba necessita, come noto, della fine immediata delle sanzioni americane nei suoi confronti per poter rilanciare la sua economia. Il Venezuela, invece, ha assoluto bisogno di ricostruire il suo rapporto con Washington per poter continuare ad esportare il suo greggio in quantità elevate.
Aprirsi al mondo ebraico, perciò, potrebbe rappresentare una mossa indiretta dei due Stati sudamericani per far pressione sul Presidente Obama e sulla sua politica estera. Non dimenticando che, da sempre, la Comunità ebraica americana ha un rapporto molto forte con il Partito Democratico, una realtà ha cui ha dato un altissimo contributo sia in termini intellettuali che di sostegno economico.
Israele, per intanto, sembra aver gradito il cambiamento. Il Presidente Shimon Peres ha inviato una lettera di ringraziamento a Fidel Castro e ha dichiarato che, quanto detto dal leader cubano. “dimostra che le distanze tra i due Paesi possono essere ridotte”.
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