giovedì 25 marzo 2010

QUELLO CHE SERGIO ROMANO NON DICE...

di Daniel Arbib Tiberi


In data 24 marzo 2010 su Il Corriere della Sera, nello spazio quotidiano dedicato all’Ambasciatore Sergio Romano , è stata pubblicata una lettera dal Dott. Fabio Della Pergola dal titolo “Le Repubbliche arabe e lo Stato Ebraico”. Di seguito il testo e la risposta dell’Ambasciatore. Più in basso, invece, troverete il commento del curatore del blog.



Lettera del Dott. Fabio Della Pergola

Lei sicuramente sa meglio di me che la contrapposizione ideologica tra «Stato degli ebrei» e «Stato ebraico» fu ampiamente dibattuta fra i sionisti fino dagli inizi del loro movimento. Oggi credo che 60 anni e più di conflitti, e la Shoah, abbiano radicalizzato posizioni che prima potevano essere discusse. Penso che uno Stato laico e democratico potrà diventare reale se e quando un lungo periodo di pace e di convivenza farà prevalere l’idea di cittadinanza (israeliana) su quella di etnia (araba o ebraica). Resta l’incongruenza di mettere sotto il microscopio della critica continua l’essenza «ebraica» di Israele, da cui l’accusa di apartheid, ma non fare mai la stessa cosa nei riguardi, ad esempio, della Siria (denominazione ufficiale: Repubblica araba di Siria), dell'Egitto (Repubblica araba d'Egitto), della Libia (Grande Jamahiriyya araba di Libia popolare e socialista) o, ancora, di Sudan, Iran, Afghanistan, Pakistan, Mauritania che sono tutte repubbliche islamiche. Vale la domanda: e chi non è arabo? E chi non è islamico?
Possiamo parlare di apartheid anche in questi casi? È evidente che Israele è uno Stato democratico di tipo europeo, ma ha una sua specificità derivante dalla storia complessa del popolo ebraico, sempre minoranza in casa d’altri negli ultimi venti secoli e, per questo, sempre duramente colpito.



Risposta dell’Ambasciatore Romano

Caro Della Pergola, aproposito delle repubbliche
islamiche non avrei difficoltà a ripetere ciò che ho scritto dello Stato ebraico.
È alquanto diverso, invece, il caso degli Stati che si definiscono arabi. Quando un gruppo di giovani colonnelli prese il potere al Cairo nel luglio del 1952 e costrinse re Faruk ad abdicare, il loro leader, Gamal Abdel Nasser, sognava un grande rinascimento arabo. Il suo obiettivo politico era una federazione che avrebbe riscattato gli arabi dall’umiliante ricordo della lunga cattività ottomana e li avrebbe definitivamente liberati dall’imperialismo europeo. Prese corpo così una ideologia panaraba che non era concettualmente diversa da certe forme di nazionalismo europeo fra l’Ottocento e il Novecento: panellenismo, pangermanesimo, panslavismo.
Non bastava quindi sbarazzare l’Egitto da una dinastia che aveva ascendenze ottomane e aveva lungamente collaborato con le potenze coloniali europee.
Occorreva farne il cuore di un movimento che avrebbe coinvolto gli Stati della costa meridionale del Mediterraneo.
Il libro di Nasser, «La filosofia della rivoluzione», divenne il vangelo politico dei giovani nazionalisti che aspiravano alla conquista del potere. Per Gheddafi, in particolare, fu il manuale a cui ricorse per programmare le sue prime mosse politiche alla fine degli anni Cinquanta e il colpo di Stato con cui rovesciò il regno di Idris nel 1969.
Vi fu persino un momento in cui il panarabismo di Nasser sembrò prossimo a materializzarsi.
Il suo primo successo fu il matrimonio fra Egitto e Siria nell’ambito della Repubblica Araba Unita (1958). L’esperimento durò soltanto tre anni e Nasser ne annunciò la fine con un melanconico discorso in cui si dichiarò certo che quella prima esperienza della «nazione araba» non sarebbe stata l’ultima.
Ve ne furono altre effettivamente: una unione tripartita (Egitto-Libia-Siria) nel 1971, una unione fra Libia e Tunisia nel 1974, una unione fra Libia e Marocco nel 1984. Ma furono tentativi effimeri dovuti in gran parte alle improvvisazioni di Gheddafi. Il panarabismo era morto nel 1967 quando la vittoria israeliana nella guerra dei Sei giorni umiliò Nasser, vale a dire il solo uomo che potesse far valere, nell’ambito di un negoziato inter-arabo, il peso di una importante potenza regionale.
Ogni Stato arabo, da allora, tende anzitutto a rafforzare se stesso e a perseguire interessi che sono spesso alquanto diversi da quelli dei suoi vicini.
La parola «arabo» sopravvive nelle loro denominazioni come traccia storica di un esperimento fallito.


Commento del curatore del blog

Sergio Romano è un personaggio molto discusso (e discutibile) per quanto concerne la questione israelo-palestinese (e, forse, il suo stesso rapporto con il mondo ebraico). Molto brevemente,a proposito delle prese di posizione dell’Ambasciatore, è sufficiente sapere che esprimono una maggiore vicinanza alla realtà palestinese (compresa una lettura diversa di Hamas), piuttosto che a quella israeliana.
Entrando nel merito della risposta di Romano alla lettera del Prof. Della Pergola, è possibile evidenziare che:

1- il carattere ebraico di Israele è completamente slegato dal concetto di laicità dello Stato. Israeliano, certamente, può e deve poterlo essere anche un “non ebreo” che ne abbia tutte le facoltà giuridiche richieste, ma Israele nasce per dare una terra ad un popolo e quel popolo, per precisione, si chiama “Popolo Ebraico”;

2- la laicità dello Stato in Israele, certemente presente e indubbiamente migliorabile, è comunque imparagonabile al caso europeo: Israele è una creazione del sionismo socialista, ma al suo interno vivono almeno altre tre anime del sionismo (revisionita, liberale e religiosa), che hanno sempre inciso nella storia del Paese e con cui David Ben Gurion, in primis, dovette fare i conti nella stessa stesura della dichiarazione di indipendenza del 1948;

3- il termine “arabo” è indubbiamente diverso da quello di “islamico”. Allo stesso modo però, va sottolineato che, proprio in seguito al fallimento del nasserismo, il panarabismo e gli stessi Stati arabi si siano sempre più caratterizzati per una forte islamizzazione (compreso l’Iraq di Saddam degli ultimi anni);

4- andrebbe evidenziata la fondamentale differenza tra lo Stato Ebraico di Israele e una Repubblica Islamica: in Israele il voto è libero, universale e non prescinde dall’etnia. In Iran, ad esempio, il voto è islamico e 5 seggi sono riservato alle minoranze;

5- sarebbe il caso di sottolineare che, diverse Costituzioni di Paesi arabi, tra cui quella irachena di recente approvazione, dichiarano l’Islam come la religione di Stato e legittimano la legge islamica (shari’a).

Queste sono solo alcune delle diverse osservazioni che potrebbero essere fatte alla risposa dell’Ambasciatore Romano.

1 commento:

  1. Ho avuto l'onore e il piacere di avere uno scambio di mail con il Dott. Della Pergola (con cui mi scuso pubblicamente per averlo confuso, nell'articolo, con il Professor Sergio Della Pergola, noto demografo).

    Il Dott. Fabio Della Pergola ha fatto delle aggiunte al mio commento che riporto di seguito. Riporto fedelmente il numero del mio intervento e il commento del Dott. Della Pegola:

    1- questo è il punto più controverso: se gli arabi israeliani diventano maggioranza della popolazione come potrà lo Stato di Israele mantenere un carattere ebraico ? Si può dire che, avendo dato una terra al popolo ebraico, ha portato a termine il suo compito. Come il sionismo non ha più ragione d'essere, nemmeno lo Stato ebraico ne avrebbe più. Israele potrebbe diventare così una democrazia compiuta dove tutti i cittadini di qualsiasi etnia o religione dovrebbero avere uguali diritti e doveri. Questo risolverebbe probabilmente i conflitti esterni con gli stati arabi, cesserebbero le ostilità con i palestinesi, verrebbe approvata dalla nuova Knesset a maggioranza araba un "diritto al ritorno" palestinese... L'elemento ebraico diventerebbe - di nuovo - minoranza in casa d'altri. E' credibile ? auspicabile ? o si riproporrebbe un nuovo problema ebraico?

    2- su questo sono d'accordo, la situazione israeliana non è paragonabile al caso Italia dove cittadini di un minuscolo Stato estero dalla bandiera bianca e gialla si arrogano il diritto di dare diktat ai cittadini ed ai parlamentari italiani su qualsiasi cosa!

    4- quello che per me è essenziale è che la volontà popolare che si esprime con il voto può anche essere coartata dall'alto (ma questo accade anche da noi) oppure anche dall'esterno. Questo significa ad esempio che un'ondata di attentati in periodo preelettorale può - ed è accaduto - orientare l'esito del voto. Lei sa bene che tutto questo non avviene in sistemi sociali non democratici le cui opinioni pubbliche sono state rese impermeabili a fattori non gestiti dal potere stesso. In questo senso definisco Israele "stato democratico di tipo europeo": non significa necessariamente più "buono" di altri, anche se non sottovaluto affatto che la libera espressione della volontà popolare mi sembra un sistema migliore degli altri per quanto perfettibile.

    Al Dott. Della Pergola, ancora un sentito ringraziamento per il suo intervento.

    D.

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