
Durante la Cold War infatti, la posizione strategica della Turchia, derivata da una stretta osservanza dell’ideologia kemalista, si caratterizzava per essere strettamente occidentalista e atlantista (si pensi al Patto di Baghdad del 1955). Oggi però, superato il vecchio bipolarismo, anche Ankara vuole la sua parte nelle relazioni internazionali.
Ovviamente, l'allargamento dell'influenza turca, non può che avvenire in un’area sita a cavallo tra l’Europa, il Medioriente e il Golfo Persico. Questo perché Ankara è perfettamente consapevole di rappresentare un corridoio indispensabile tra Occidente e Oriente, un passaggio chiave sia a livello economico che culturale. In questo senso quindi, va letto l'attivismo diplomatico degli ultimi mesi del Ministero degli Esteri turco, guidato dall’astuto Ahmet Davutoglu, già soprannominato il “Kissinger del Bosforo”: gli sforzi per entrare nell’Unione Europea, la mediazione nel conflitto tra Israele e Siria, l'attivismo nella questione palestinese, le prese di posizione sul Libano nel tentativo di favorire una riconciliazione interna e l'apertura verso Teheran, ne sono una dimostrazione.
Ankara vuole approfittare della sua posizione strategica per acquisire quella che gli esperti del settore, chiamano “profondità strategica”, ovvero una capacità di far valere la propria influenza ben oltre i propri confini nazionali. L’essere la realtà islamica più vicina, storicamente e geograficamente, all’Europa, rappresenta perciò per il Governo turco un vantaggio da sfruttare a 360 gradi.
Come detto però, questo riposizionamento, sta deteriorando la special relationship tra Israele e Turchia. Per acquisire “profondità strategica” infatti, il partito islamico al potere ad Ankara (il “Partito Giustizia e Sviluppo-AKP”) sta attuando una politica di moderazione compensata però, allo stesso tempo, dall’accentuazione del carattere islamico della Turchia. Chiaramente ciò ha determinato, inevitabilmente, una dura e pericolosa lotta con la realtà più laica (anzi laicista) del Paese, ovvero l’esercito. Uno scontro che solo ora sembra aver trovato un parziale equilibrio.
Le fratture fra Tel Aviv e Ankara, espresse nelle pesanti critiche turche ad Israele per l’offensiva di Gaza e nella cancellazione dell’esercitazione Nato “Anatolian Eagle”, non debbono però essere estremizzate. Come dichiarato in una intervista concessa a Newsweek dal Ministro Davutoglu, l’obiettivo della Turchia è quello di favorire la nascita di un Medioriente “prosperoso, stabile e sicuro”. L’apertura ai nemici di un tempo quindi, è vista da Ankara non come un cambiamento radicale rispetto al passato, ma come un approfondimento. L’importanza dell’Alleanza Atlantica quindi, unita anche alla cooperazione economica e militare con Israele, non sembrano essere davvero in discussione. Certamente però si tratta di un momento di passaggio che, come tutte le transizioni, determina pericolose crisi. Ecco perché, come molti analisti osservano, è importante che l’Europa non perda il corridoio turco: una Turchia legata a doppio filo all’UE infatti, sarebbe anche un Paese “costretto” inevitabilmente a moderare costantemente molti dei suoi estremismi (questo senza contare l’importanza del Bosforo per le tematiche energetiche).
Presto il Primo Ministro turco Erdogan si recherà in Siria per una visita ufficiale. Prevedibilmente verranno firmati alcuni accordi con Damasco che includeranno anche una cooperazione militare e strategica. Questa mossa sarà, indubbiamente, motivo di una nuova crisi nelle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele. La preoccupazione di Gerusalemme è ben comprensibile, ma la domanda centrale dovrebbe essere la seguente: per il futuro, è meglio una Siria legata a doppio filo con Teheran oppure ad Ankara?
Ai posteri l’ardua sentenza…
non c'è l'opzione "meglio nessuna Siria?" (cioè, meglio una siria senza il dominio degli Assad)
RispondiEliminaIl pericolo, più che fondato, è che la Turchia giri le armi che compra da EU e USA alla Siria, e da là in mano a Hezbollah per arrivare sulle capocce degli israeliani. Anzi, sicuramente sarà così, visto che non c'è motivo per cui la Siria debba cambiare la propria politica e supporto verso i terroristi sciiti.
In primis Rohi scusa per il ritardo della risposta. Ho visto il commento solo ieri notte.
RispondiEliminaPer quanto riguarda la mia risposta sulla Siria, io credo che il problema sia attualmente di difficile decifrazione. Gli Assad mantengono ancora saldo il loro potere, ma in una realtà fragile. Questo sia per ragioni sociali (la Siria è divisa etnicamente e gli Assad, di matrice Alawita, rappresentano una minoranza nel Paese), sia per ragioni economiche. E' proprio questa fragilità che obbliga la Siria a parlare con Israele (Golan) e con l'Occidente. Il nodo da sciogliere però sarà la relazione con l'Iran. Per ora si tratta di un asse strategico stabile e saldo. Se l'Occidente (all'interno del quale inserisco ancora la Turchia, non condizionerà il suo appoggio a Damasco, alla fine di questo legame con l'Iran, certamente di passi avanti, almeno ora, se ne faranno pochi.
Ripeto: per tutti si tratta di un momento di transione, ma è chiara la linea che si dovrebbe seguire. In Europa poi, almeno personalmente, aspetto ancora di capire come Sarkozy abbia intenzione di continuare a relazionarsi con Damasco. Staremo a vedere.
Un abbraccio