di Daniel Arbib Tiberi
Ci sono due modi per cominciare a parlare della Corea del Nord: descrivere il suo programma nucleare e le conseguenze che sta avendo a livello geopolitico, oppure dare immediatamente dei dati sulla situazione della sua popolazione. In questo caso abbiamo preferito scegliere la seconda strada.
Secondo un deputato sudcoreano, tale Sang-Hyun, in Corea del Nord esistono almeno sei campi di concentramento, in cui sarebbero rinchiusi circa 154 mila detenuti, costretti a lavorare oltre 10 ore al giorno in cambio di 100-200 grammi di cibo giornaliero. Da quando la crisi economica ha cominciato a colpire il paese, le condizioni di vita nella cosiddetta Repubblica popolare si sono costantemente deteriorate. Una politica economica prevalentemente basata sull’industria pesante, unita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica – grande finanziatore del regime nordcoreano – e a una serie di disastri naturali, hanno costretto la maggior parte della popolazione a una vita di fame e stenti. Non è un caso il fatto che non sono praticamente disponibili dati sul reddito pro capite medio.
Piccolo inciso sulla politica della Corea del Nord: il paese, ufficialmente noto come Repubblica democratica popolare di Corea (Rdpc), è retto da oltre quarant’anni da una dittatura marxista-leninista fondata da Kim il-Sung, al potere dal 1948 al 1994 e divenuto, dopo la sua morte, presidente eterno della Corea del Nord (egli è anche noto come il “Grande leader”). Il posto di Kim il-Sung è stato preso da suo figlio, Kim Jong-il, noto a sua volta come il “Caro leader”, e capo del “Comitato di difesa nazionale”, vero organo istituzionale di governo del paese.
Da ormai sette anni la Corea del Nord è ritornata al centro del dibattito politico per il suo programma nucleare. Un programma cominciato con l’aiuto dei sovietici negli anni ’60 (fu infatti grazie alla loro cooperazione che venne costruito il primo centro di ricerca nucleare nella piccola città di Yonbyon). Il programma nucleare nordcoreano è stato basato principalmente sull’arricchimento di plutonio. Con la fine della Guerra Fredda e l’inizio di un periodo di dialogo tra Pyongyang e Seul, era parso a tutti che la questione del nucleare della Corea del Nord si stesse piano piano risolvendo. Nel 1991 infatti il regime comunista firmava un “accordi di riconciliazione” con la Corea del Sud, nel 1992 il paese si apriva ai controlli dell’Agenzia atomica internazionale (Aiea) e, finalmente, nel 1994, un protocollo di intesa veniva firmato direttamente con gli Stati Uniti. In cambio del congelamento del suo programma nucleare, la Corea del Nord riceveva aiuti alimentari, rifornimenti petroliferi e una collaborazione per la costruzione di due reattori ad acqua leggera (Lwr) da 1,000 Mw ciascuno.
L’accordo del 1994 fu però solamente una illusione. Nell’ottobre 2002 veniva alla luce il programma nucleare clandestino della Corea del Nord basato, stavolta, sull’uranio. L’anno successivo la Rdpc usciva dal Trattato di non proliferazione (Tnp) e nel 2006 il paese attuava il suo primo test nucleare che ha provocato una scossa pari a 4,2 gradi della scala Richter. Un secondo test è stato fatto invece nell’aprile del 2009: grazie a questo secondo esperimento il paese è stato giudicato dall’Aiea come “fully fledged nuclear power” (in pratica una potenza nucleare “a pieno titolo”).
La domanda da farsi è come mai la Corea del Nord, paese poverissimo, stia investendo tanti soldi in un programma nucleare? La risposta è semplice e univoca: la sopravvivenza del regime. Un programma nucleare di tipo militare serve al regime comunista per unire la sua popolazione interna contro un grande satana esterno (in questo caso gli Stati Uniti) e per acquisire una forza diplomatica che altrimenti non avrebbe. Paese che assomiglia davvero a un rudere del passato, la Corea del Nord si è dimostrata capace di giocare le poche carte che ha a disposizione molto bene. Attraverso una politica di provocazione e conciliazione, Pyongyang ha praticamente scavalcato la diplomazia del “dialogo a Sei” (il cosiddetto “Six Party Talks” cominciato nel 2003 con Usa, Corea del Sud, Giappone, Cina, Corea del Nord, Russia e Giappone), per puntare direttamente a un dialogo con la Casa Bianca. Il modello è un po’ quello seguito dall’India e dal Pakistan: creare una situazione di fatto in cui è possibile solamente scendere a patti.
Una situazione di forza derivata anche dalle capacità militari convenzionali (ovvero classiche), con cui l’esercito nord coreano tiene sotto scacco la capitale della Sud Corea, Seul. L’artiglieria nord coreana infatti è ben nascosta al confine e, in caso di attacco, potrebbe colpire Seul, come detto, in pochi secondi, distruggendone una buona parte. Se a questi dati si aggiunge il possesso, da parte nord coreana, di missili come il Taepedong 1, capaci di raggiungere il 2,900 Km e di trasportare testate nucleari multiple, si capisce bene come la questione sia davvero intricata.
Il presidente Obama ha condannato tutti i test nucleari e missilistici della Corea del Nord e ha sottolineato il fatto che la questione debba essere risolta all’interno di un dialogo multilaterale – il dialogo a Sei – e non bilaterale. I nord coreani però non sembrano molto concordi. Insieme al dialogo, la diplomazia spera anche in alcuni cambiamenti interni al regime. Recentemente si è discusso molto delle condizioni di salute del “caro leader” Kim Jong-il e si è fatto il nome di un suo possibile successore, suo figlio minore Kim Jong-un, ma almeno per ora niente sembra lasciar trasparire un cambiamento netto di rotta.
La risoluzione del problema nordcoreano non riveste una importanza solamente per la regione del cosiddetto Lontano Oriente, ma anche per quella del Vicino Oriente: la Rdpc è infatti tra le maggiori responsabili della proliferazione nucleare in tutta l’Asia (Medioriente compreso). Riportare all’ordine Pyongyang significa quindi dare al mondo maggiori garanzie di pace. La Cina e la Russia sono avvertite.
Secondo un deputato sudcoreano, tale Sang-Hyun, in Corea del Nord esistono almeno sei campi di concentramento, in cui sarebbero rinchiusi circa 154 mila detenuti, costretti a lavorare oltre 10 ore al giorno in cambio di 100-200 grammi di cibo giornaliero. Da quando la crisi economica ha cominciato a colpire il paese, le condizioni di vita nella cosiddetta Repubblica popolare si sono costantemente deteriorate. Una politica economica prevalentemente basata sull’industria pesante, unita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica – grande finanziatore del regime nordcoreano – e a una serie di disastri naturali, hanno costretto la maggior parte della popolazione a una vita di fame e stenti. Non è un caso il fatto che non sono praticamente disponibili dati sul reddito pro capite medio.
Piccolo inciso sulla politica della Corea del Nord: il paese, ufficialmente noto come Repubblica democratica popolare di Corea (Rdpc), è retto da oltre quarant’anni da una dittatura marxista-leninista fondata da Kim il-Sung, al potere dal 1948 al 1994 e divenuto, dopo la sua morte, presidente eterno della Corea del Nord (egli è anche noto come il “Grande leader”). Il posto di Kim il-Sung è stato preso da suo figlio, Kim Jong-il, noto a sua volta come il “Caro leader”, e capo del “Comitato di difesa nazionale”, vero organo istituzionale di governo del paese.
Da ormai sette anni la Corea del Nord è ritornata al centro del dibattito politico per il suo programma nucleare. Un programma cominciato con l’aiuto dei sovietici negli anni ’60 (fu infatti grazie alla loro cooperazione che venne costruito il primo centro di ricerca nucleare nella piccola città di Yonbyon). Il programma nucleare nordcoreano è stato basato principalmente sull’arricchimento di plutonio. Con la fine della Guerra Fredda e l’inizio di un periodo di dialogo tra Pyongyang e Seul, era parso a tutti che la questione del nucleare della Corea del Nord si stesse piano piano risolvendo. Nel 1991 infatti il regime comunista firmava un “accordi di riconciliazione” con la Corea del Sud, nel 1992 il paese si apriva ai controlli dell’Agenzia atomica internazionale (Aiea) e, finalmente, nel 1994, un protocollo di intesa veniva firmato direttamente con gli Stati Uniti. In cambio del congelamento del suo programma nucleare, la Corea del Nord riceveva aiuti alimentari, rifornimenti petroliferi e una collaborazione per la costruzione di due reattori ad acqua leggera (Lwr) da 1,000 Mw ciascuno.
L’accordo del 1994 fu però solamente una illusione. Nell’ottobre 2002 veniva alla luce il programma nucleare clandestino della Corea del Nord basato, stavolta, sull’uranio. L’anno successivo la Rdpc usciva dal Trattato di non proliferazione (Tnp) e nel 2006 il paese attuava il suo primo test nucleare che ha provocato una scossa pari a 4,2 gradi della scala Richter. Un secondo test è stato fatto invece nell’aprile del 2009: grazie a questo secondo esperimento il paese è stato giudicato dall’Aiea come “fully fledged nuclear power” (in pratica una potenza nucleare “a pieno titolo”).
La domanda da farsi è come mai la Corea del Nord, paese poverissimo, stia investendo tanti soldi in un programma nucleare? La risposta è semplice e univoca: la sopravvivenza del regime. Un programma nucleare di tipo militare serve al regime comunista per unire la sua popolazione interna contro un grande satana esterno (in questo caso gli Stati Uniti) e per acquisire una forza diplomatica che altrimenti non avrebbe. Paese che assomiglia davvero a un rudere del passato, la Corea del Nord si è dimostrata capace di giocare le poche carte che ha a disposizione molto bene. Attraverso una politica di provocazione e conciliazione, Pyongyang ha praticamente scavalcato la diplomazia del “dialogo a Sei” (il cosiddetto “Six Party Talks” cominciato nel 2003 con Usa, Corea del Sud, Giappone, Cina, Corea del Nord, Russia e Giappone), per puntare direttamente a un dialogo con la Casa Bianca. Il modello è un po’ quello seguito dall’India e dal Pakistan: creare una situazione di fatto in cui è possibile solamente scendere a patti.
Una situazione di forza derivata anche dalle capacità militari convenzionali (ovvero classiche), con cui l’esercito nord coreano tiene sotto scacco la capitale della Sud Corea, Seul. L’artiglieria nord coreana infatti è ben nascosta al confine e, in caso di attacco, potrebbe colpire Seul, come detto, in pochi secondi, distruggendone una buona parte. Se a questi dati si aggiunge il possesso, da parte nord coreana, di missili come il Taepedong 1, capaci di raggiungere il 2,900 Km e di trasportare testate nucleari multiple, si capisce bene come la questione sia davvero intricata.
Il presidente Obama ha condannato tutti i test nucleari e missilistici della Corea del Nord e ha sottolineato il fatto che la questione debba essere risolta all’interno di un dialogo multilaterale – il dialogo a Sei – e non bilaterale. I nord coreani però non sembrano molto concordi. Insieme al dialogo, la diplomazia spera anche in alcuni cambiamenti interni al regime. Recentemente si è discusso molto delle condizioni di salute del “caro leader” Kim Jong-il e si è fatto il nome di un suo possibile successore, suo figlio minore Kim Jong-un, ma almeno per ora niente sembra lasciar trasparire un cambiamento netto di rotta.
La risoluzione del problema nordcoreano non riveste una importanza solamente per la regione del cosiddetto Lontano Oriente, ma anche per quella del Vicino Oriente: la Rdpc è infatti tra le maggiori responsabili della proliferazione nucleare in tutta l’Asia (Medioriente compreso). Riportare all’ordine Pyongyang significa quindi dare al mondo maggiori garanzie di pace. La Cina e la Russia sono avvertite.
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