lunedì 30 maggio 2011

LE RELAZIONI TRA STATI UNITI E PAKISTAN DOPO L' "OPERAZIONE GERONIMO"

di Daniel Arbib Tiberi


La morte di Bin Laden è stata un importante colpo per la rete terroristica di Al-Qaeda. Nonostante la nomina di un successore da parte de “La Base”, numerosi analisti hanno predetto una parabola discendente dell’organizzazione radicale sunnita (tra questi Fareed Zakaria). L’operazione dei Navy Seals – un’azione tecnicamente perfetta – ha determinato, però, una crisi diplomatica tra Stati Uniti e Pakistan: la decisione di uccidere il leader di Al Qaeda, infatti, è partita direttamente da Washington e non è stata condivisa in alcun modo con le autorità di Islamabad. Al contrario, la decisione unilaterale della Casa Bianca è stata una chiara dimostrazione della sfiducia americana verso l’alleato pachistano, da sempre accusato di avere un atteggiamento ambivalente nei confronti del supporto al radicalismo islamico.

D’altronde, come non notare che Bin Laden è stato colpito in una villa presso Abbottabad a soli cinquanta chilometri dalla capitale pachistana Islamabad? Come non chiedersi come mai Bin Laden viveva indisturbato in quella villa da circa cinque anni? Risulta, quindi, impossibile che le forze di sicurezza locali non sapessero nulla della presenza dell’emiro saudita.

La morte di Bin Laden è stata, perciò, una ferita al cuore dell’orgoglio pachistano. Il Parlamento di Islamabad si è riunito in una sessione speciale e ha approvato alcune norme per limitare le azioni americane in territorio pachistano, soprattutto nell’area delle FATA (Federally Administered Tribal Areas). Senza contare che, prima di quanto accaduto con Bin Laden, l’orgoglio pachistano era stato colpito duramente con la questione dell’agente CIA Ray Davis. Davis, qualche mese prima, aveva ucciso due agenti di sicurezza pachistani scambiandoli per ladri. Coperto dall’immunità, l’agente CIA era stato rilasciato dopo la promessa da parte americana di ripagare monetariamente le famiglie degli agenti colpiti. Politicamente, però, la decisione di liberare Davis è stata criticata duramente in Pakistan e il Presidente Zardari è stato accusato di essere un debole e di essere complice di una “tragedia nazionale”. A gennaio e marzo, infine, due politici pachistani sono caduti sotto i colpi dagli estremisti islamici: Salman Taseer, Governatore del Punjab esponente critico della legge islamica sulla blasfemia, e Shahbaz Bhatti, Ministro per le Minoranze di fede cristiana. Insomma, una situazione praticamente di fuoco.

Nonostante la crisi diplomatica in corso, però, Stati Uniti e Pakistan sembrano avviati – tra mille difficoltà – alla ricerca dell’abbassamento delle tensioni e al superamento della crisi diplomatica. Il ritorno alla normalità dei rapporti, d’altronde, sembra rientrare negli interessi strategici di ambedue gli Stati. Il Pakistan, infatti, ha bisogno dei finanziamenti americani per la stabilizzazione dell’economia (si parla di oltre 20 miliardi di dollari) e non può permettersi di far pendere la bilancia del sostegno americano nella regione interamente dalla parte dell’India (nemico per eccellenza del Pakistan). Washington, invece, ha ancora bisogno di Islamabad per la lotta contro il terrorismo e la riconciliazione nazionale in Afghanistan (Islamabad, come noto, è un interlocutore privilegiato dei Taliban).

Tirando le somme, quindi, come evidenziato dagli analisti Yoram Schweitzer e Dan Barak, non è dato sapere per certo quale sarà il futuro delle relazioni tra americani e pachistani ma, come suddetto, i reciproci interessi nazionali sembrano tendere ancora – fortunatamente – verso un nuovo incontro diplomatico.

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