martedì 17 novembre 2009

Aung San Suu Kyi e la sua lotta per la libertà

Di Daniel Arbib Tiberi

Si chiama Unione per il Myanmar, ed è un Paese governato, ormai da quasi venti anni, da un regime militare praticamente totalitario. Il futuro della libertà passa anche da questa penisola asiatica che, geograficamente parlando, confina con Stati come la Cina, l’India e la Thailandia.
E’ in questa realtà che, la giunta militare al potere, ha chiuso in gabbia una donna di raro spessore culturale e politico come Aung San Suu Kyi.
Chi è Aung San Suu Kyi? Aung San Suu Kyi è una “figlia d’arte”. Suo padre infatti era il Generale Aung San, uno degli uomini che ha condotto la Birmania (oggi Myanmar) all’indipendenza dal dominio coloniale inglese nel 1947, caduto per mano di alcuni avversari politici.
Dalla morte del padre in poi, la vita di Aung San Suu Kyi è stata direttamente legata a quella della madre Khin Kyi. Khin Kyi, dopo la morte del marito, decise di impegnarsi attivamente in politica, sino a divenire ambasciatrice del suo Paese in India negli anni ’60.
Aung San Suu Kyi trovò nella madre una ispirazione culturale e, l’opportunità di viaggiare, le dette la possibilità di studiare sia ad Oxford, dove ottenne la laurea in Filosofia, Scienze Politiche ed Economi, che negli Stati Uniti. Le sue competenze la portarono quindi, nel 1972, a lavorare direttamente per le Nazioni Unite. In quegli stessi anni, la vita privata di Aung San Suu Kyi, fu anche coronata dal matrimonio con Micheal Aris, esperto di cultura tibetana e padre dei due figli di Aung San Suu Kyi, Alexander e Kim.
Insomma, una vita di vero e proprio successo su cui potersi anche adagiare. Non è stato questo però il caso di Aung San Suu Kyi. Tornata in Birmania nel 1988 per aiutare la madre malata, la figlia del Generale Aung San, decise di reagire al potere autoritario instaurato dal Generale Saw Maung in quel periodo. Decise per questo di impegnarsi attivamente nella politica interna della Birmania, fondando la “Lega Nazionale per la Democrazia”.
Nonostante i tentativi di soffocare il suo movimento, la giunta militare al potere non riuscì ad impedire che, nelle elezioni politiche del 1990, la Lega Nazionale per la Democrazia, riuscì a conquistare oltre il 60% dei voti, una percentuale che, in teoria, avrebbe dovuto permettere la nomina di Aung San Suu Kyi a Primo Ministro.
Le cose però andarono diversamente. Aung San Suu Kyi venne arrestata e da quel momento, tra alti e bassi, vive in una vera e propria condizione di prigionia. In nome della sua lotta per la libertà, ad Aung San Suu Kyi è stato assegnato il Nobel per la Pace nel 1991, ma le pressioni internazionali non sono valse sinora a farle conquistare la libertà definitiva. Nel 2003, il regime ha anche tentato di uccidere la leader democratica, sparando contro un convoglio dove Aung San Suu Kyi si trovava insieme ai suoi supportes.
Come un uccello in gabbia, Aung San Suu Kyi sta cercando quotidianamente di lottare per la sua liberazione. In lei vivono i drammi più atroci dell’assenza della libertà. Come leader politico infatti le è stata negata la libertà di esprimersi, come donna le è stata negata la libertà di essere individuo, moglie e, soprattutto, madre.
E’ di questi giorni la notizia della deposizione, in Corte d’Appello, della istanza degli avvocati di Aung San Suu Kyi, per ottenere la fine del regime di arresti domiciliari impostale. La Comunità Internazionale, Europa e Stati Uniti in testa, sono fermamente impegnati in questa battaglia.
Tutto questo però sembra non bastare. Per la Birmania, oltre che la repressione, passano anche tanti interessi geopolitica che, in particolare, coinvolgono i vicini cinesi e indiani.
Per quanto concerne la Cina, essa ha in Birmania diversi interessi: il commercio, l’accesso all’Oceano Indiano, la centralità dello Stretto di Malacca e il comune disprezzo per la ribellione dei monaci buddisti (si ricordino le repressioni birmane del 2007 e quelle recenti cinesi in Tibet).
In maniera diversa, anche l’India ha diversi interessi in Birmania. Dalle ribellioni dei monaci buddisti del 2007, New Delhi avrebbe potuto anche guadagnarci. Il governo indiano però, decise di appoggiare la giunta militare birmana al potere, proprio per il timore che i cinesi invadessero la regione. La volontà di allargare la sua influenza però l’India la mantiene viva, sapendo anche che la regione Birmana ha con l’India un legame culturale molto forte.
Paradossalmente però, proprio da queste influenze esterne, potrebbe scaturire la scelta dei Generali birmani di liberare Aung San Suu Kyi, come gesto di riconciliazione con gli Stati Uniti del Presidente Obama.
In fondo, meglio chinare la testa una volta ad un nemico lontano, che rischiare di doverla chinare definitivamente a degli "amici" vicini....

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